Fragile Eternity. Sara Forte’s Glass Sculptures
By Angelo Crespi
The oxymoron “fragile eternity” invites us to reason with the recent production of Sara Forte, who has chosen the most fragile of material, glass, to bring an eternal substance to her sculptures. Eternity, by definition, is durable: a constant prolongation, without interruption or possibility of collapse; yet, the concept of eternity encompasses an inherent fragility, caused by the human inability to experiment with eternity outside of vague intellectual approximation. Thus, the eternal is considered as fragile; forced to live in the perishable and to experience only the ephemeral, every moment we presuppose its limit. And it is for this reason that we have come up with art that allows us to perceive everything in fragments, eternity in time, an art that in antiquity needed to express itself in solid materials, in bronze and marble, while in the contemporary is able to utilize more perishable, but no less powerful, materials to contrast our human transience. In consequence, the oxymoron “fragile eternity” has a fascinating lyrical competent in the antiphrastic, irreconcilable, and exuberant relationship between resistance and desistance, to be and to become, death and life. A lyricism that is exalted in Sara’s work, where blown glass assumes forms and colours of a sinuous beauty, allowing us to transcend the vice of material that could shatter and break, and whose shapes and colours become indelible in our eyes and in our minds. Besides, the strongest conceptual tool for predicting eternity is that of metamorphosis (hence the titles chosen by Forte), since it is precisely the constant transformation of form, its evolution, the regeneration of new forms, that impede the ineluctable decay of things: metamorphosis deceives time by prolonging its development. Even more indicative and iconic are the splendid murrines, that stretch and flex, twist to form precious garments, appearing light and subtle. They are inspired by Italo Calvino’s “Le città invisibili”, specifically the chapter “Le città sottili”, in which the writer imagines new metropolises, arial like dreams and dense like words.
In the past, the Milanese artist had accustomed us to algid work that tended to exclude any lyrical intent, and that moved – in our opinion – in line with precise historical guidelines, influenced primarily by the MAC theories, Bruno Munari’s Concrete Art Movement (il Movimento Arte Concreta). The movement’s intent in the 1950s was to oppose the trend of abstraction with concrete art, “based only – wrote Gillo Dorfles – on the realisation and objectification of the artists’ intuition, rendered into concrete images of form-colour, far from any symbolic meaning, from any formal abstraction, and aimed at considering only those rhythms, those cadences, those chords, of which the world of colour is so rich with”. Hence Forte’s adoption of a “graphic module”, the cartouche that is primus movens of her pictorial creation, a specific ancestral form that recalls the ellipses of Angelo Bozzola, their germinative, pulsating, and primordial character, on which new geometric forms, especially the circle (see the series of silicas) are embedded. Influenced secondly, by Programmed Art (non-kinetic), supporting the Gestalt utopia in the name of “pure research” – as Marco Meneguzzo, the most refined exegete of the movement, intended – that proposes “timeless visual schemes and patterns”, of elementary levels (in the vein of Grazia Varisco to be clear), an art in which the artist is a mere “aesthetic operator”, while the audience becomes the central element of the work. From here arises the programmatic will, that once belonged to MAC and now belongs to Forte, to make art that is not afraid of mixing with design or with artisanal and industrial production, from which mirrors and glass derive.
The rejection of any expressive-conceptual superfetation is noticeable in Sara Forte’s recent paintings (the “Kósmos” and “Argo” series), which seem to lean towards Analytical Painting, a painting-painting that has lost all relationship to reality and so distinguishes itself from figurative painting. Unlike abstract art, it does not search for any expressivity, and unlike conceptual art, it does not tend to any meaning. It is a pure, self-referential painting that becomes an object of self-investigation: like Forte’s skies not skies Forte (at Claudio Olivieri), that are extensions of colour (purples, oranges, blues, pinks), sometimes flat, sometimes with rare shades that arouse sinusoidal and fractal curves; or the precious glass grafts that recall organic forms, nearly with baroque intentions, although never leaving the semantic field of reference described above.
Fragile eternità. Le sculture in vetro di Sara Forte
di Angelo Crespi
L’ossimoro “fragile eternità” ci costringe a un laborioso ragionamento sulla recente produzione di Sara Forte che ha scelto il più fragile dei materiali, il vetro, per dare sostanza d’eternità alle sue sculture. L’eternità, per definizione, non può che essere durevole, un prolungarsi senza interruzioni né possibilità di cedimento, eppure il concetto ha una sua altrettanto insita fragilità, causata dall’incapacità umana di sperimentare l’eterno se non per vaga approssimazione intellettiva. Dunque l’eterno, se pensato, è fragile, poiché ogni istante ne presupponiamo il limite, essendo noi costretti a vivere nel perituro e ad esperire solo l’effimero. Ed è per questo motivo che abbiamo escogitato l’arte che, invece, ci consente di percepire il tutto nel frammento, l’eterno nel tempo, un’arte che nell’antichità doveva esprimersi per forza in materiali solidi, il bronzo e il marmo, mentre nella contemporaneità gli è permesso di utilizzare sostanze perfino più deperibili, ma non meno potenti per contrastare la caducità umana. L’ossimoro “fragile eternità” ha, di conseguenza, una forte componente lirica nella antifrastica, inconciliabile, esuberante relazione tra resistenza e desistenza, essere e divenire, morte e vita, un lirismo che si esalta nelle opere di Sara, dove il vetro soffiato assume forme e colori di una sinuosa bellezza che ci permette di trascendere lo stesso vizio della materia che potrebbe sì frangersi, rompersi, e pur tuttavia le cui forme e colori continuerebbero a permanere indelebili nei nostri occhi e nella nostra mente. D’altronde, lo strumento concettuale più forte per presagire l’eternità è quello della metamorfosi (da qui, supponiamo, i titoli scelti dalla Forte per i vetri), poiché proprio il costante cambiamento della forma, la sua evoluzione, la rigenerazione di forme nuove dalla primigenia, impediscono l’ineluttabile decadenza delle cose: la metamorfosi, di fatto, inganna il tempo prolungandone lo svolgimento. Allo stesso modo, ancora più indicative e iconiche le splendide murrine che si allungano e si flettono, si torcono a formare preziose vesti, all’apparenza leggere e flessuose, e che sono ispirate da “Le città invisibili” di Italo Calvino, più propriamente dai sotto capitoli “Le città sottili”, in cui lo scrittore immagina nuove metropoli, aeree come i sogni e dense come le parole.
In passato, l’artista milanese ci aveva invece abituato a un lavoro algido che tendenzialmente escludeva ogni intento lirico e si muoveva – a nostro parere – su precise direttrici storiche, influenzato in primis dalle teorie del MAC, il Movimento Arte Concreta di Bruno Munari, il cui intento negli anni Cinquanta del Novecento era di opporsi alla moda dell’astrazione prediligendo un’arte appunto concreta, “basata soltanto – scriveva Gillo Dorfles – sulla realizzazione e sull’oggettivazione delle intuizioni dell’artista, rese in concrete immagini di forma-colore, lontane da ogni significato simbolico, da ogni astrazione formale, e miranti a consigliere solo quei ritmo, quale cadenze, quegli accordi, di cui è così ricco il mondo dei colori”. Da qui, l’adozione da parte della Forte di un “modulo grafico”, il cartiglio che è primus movens della sua creazione pittorica, una determinata forma ancestrale che ricorda le ellissi di Angelo Bozzola, il loro carattere germinativo, pulsante, primordiale, su cui si innestano altre forme più geometriche soprattutto il cerchio (si veda la serie dei silici); e secondariamente dall’Arte Programmata (non cinetica) assecondando l’utopia gestaltica in nome di una “ricerca pura” – come la intende Marco Meneguzzo, il più raffinato esegeta di quel movimento – che propone “schemi e pattern visivi senza tempo”, di livello elementare (sul tipo di Grazia Varisco per intenderci), un’arte in cui l’artista è un mero “operatore estetico”, mentre il fruitore diventa l’elemento centrale della messa in opera. Da qui la volontà programmatica, che fu del MAC e ora è della Forte, di fare arte che non teme di mischiarsi con il design né con la produzione artigianale e industriale da cui derivano gli specchi e gli stessi vetri.
La riluttanza a ogni superfetazione espresivo-concettuale, si nota anche negli ultimi quadri di Sara Forte (le serie “Kósmos” e “Argo”) in cui sembra propendere per la Pittura Analitica, una pittura-pittura che ha perso ogni relazione con la realtà e dunque si distingue dalla pittura figurativa, che inoltre non cerca nessuna espressività come tenta la pittura astratta, e che infine neppure tende a un qualche significato come vuole l’arte concettuale, una pittura dunque pura, autoreferenziale che diventa oggetto di indagine di sé stessa: ne sono esempi i cieli non cieli della Forte (alla Claudio Oliveri) che sono estensioni di colore (i viola, gli aranci, i blu, i rosa…) talora piatti, talora con rare sfumature su cui si innervano curve sinusoidali e frattali, o preziosi innesti di vetro a recuperare forme organiche, quasi con intenti barocchi, sebbene mai ad uscire dal campo semantico di pertinenza sopra descritto.